Storia del Karate Shotokan

Cenni sulle origini del karate

 (I testi sono tratti dal libro: SHOTOKAN KARATE-DO di Domenico Caprioli )

(VADEMECUM Esame di qualifica istruttore - scaricabile dal sito della UISP nazionale )

Un samurai giapponese
Il termine Bushido significa “via del guerriero” e indica il codice comportamentale dei samurai del passato. Nel Bushido si trovano elementi zenisti e scintoisti; è proprio il buddismo Zen a rendere lo spirito del samurai forte come la sua spada. Il samurai deve dimostrare impassibilità e autocontrollo in ogni circostanza, grazie allo Zen impara ad avere padronanza di sé stesso in qualsiasi situazione.

Si ipotizza che il karate risalga a più di mille anni fa. Bodhidharma (Ta Mo in cinese) giunse al monastero di Shaolin in provincia di Honan in Cina, ideò alcuni esercizi, atti a rinvigorire il corpo e lo spirito degli adepti monaci. La rigida disciplina monastica e la conoscenza mista all'arte modificarono con gli anni l’allenamento psico-fisico per divenire quello che è conosciuto con il nome di metodo di combattimento Shaolin. Dopo varie vicissitudini, tale arte arrivò ad Okinawa e si mescolò con le tecniche indigene. Sia il signore dell’antica Okinawa che Kagoshima, feudatario all'epoca del Kiushu in Giappone, proibirono l’uso delle armi. Da qui si svilupparono il combattimento senza armi e la difesa personale. Quest’arte per la sua origine cinese dapprima venne chiamata karate, ideogramma avente il significato di “mano cinese”. Funakoshi Gichin, morto nel 1957 all'età di 88 anni, fondatore del karate moderno, mutò gli ideogrammi in “mano vuota”, pur rimanendo invariato il suono. Funakoshi scrisse: «Come la superficie lucida di uno specchio riflette tutto ciò che le sta davanti e la valle silenziosa riporta ogni più piccolo suono, così chi si accinge a praticare il karate deve rendere il proprio spirito vuoto da ogni egoismo e malvagità in uno sforzo per reagire convenientemente dinanzi a tutto ciò che può incontrare». Nel 1922 il maestro Funakoshi, professore all'università di Okinawa, diede una lezione dimostrativa di quest’arte in Giappone. Questa dimostrazione impressionò a tal punto che il maestro rimase in Giappone per insegnare il karate presso varie università e nel 1936 fondò lo stile Shotokan. Nel 1955 fu fondata la Japan Karate Association, di cui Funakoshi era il responsabile tecnico.

Il termine “Rei” (saluto) deriva da “keirai” (saluto, inchino) ed è un concetto fondamentale per tutte le arti marziali. “Rei” è espressione della cortesia, del rispetto e della sincerità: «senza cortesia il valore del karate va perso», disse il  Maestro Funakoshi.

Il saluto:
«Non bisogna dimenticare che il karate comincia con il saluto e termina con il saluto». In questa frase all'apparenza semplice, che costituisce il primo dei 20 precetti della via del karate del M° G. Funakoshi, sta il cuore del karate-do. Più semplicemente essa costituisce lo spirito della cultura orientale e di quella giapponese in particolare. Il termine giapponese per indicare la parola saluto è “Rei” il cui ideogramma contiene il radicale che riporta il concetto di “divinità” (parte sinistra dell’ideogramma). Nell’ambito della cultura orientale il saluto ha acquisito un significato molto ampio ed ha associato ai normali aspetti legati all’etichetta e alla cortesia, comuni un po’ a tutte le culture e società, i concetti di incerità, rettitudine e rispetto di sé oltre che degli altri. Nell’ambito delle arti marziali, il saluto fa riferimento a un rituale che accompagna alla semplicità esteriore dei gesti, un aspetto interiore molto articolato e complesso. Rappresenta un’interiorizzazione di un mondo che si estende dalla propria persona per allargarsi e raggiungere il maestro, gli altri praticanti, la palestra e l’arte marziale che si sta praticando. Il praticante, attraverso il saluto, manifesta la sua intenzione a percorrere e praticare la Via (Do) con una continua ricerca dell’equilibrio e del controllo dei propri sentimenti, in un ambito di costante richiamo all’umiltà, alla disciplina e alla perseveranza. In un Dojo il saluto può assumere diverse espressione che riflettono altrettanti momenti della pratica marziale; dal punto di vista pratico si possono individuare due tipi di saluto: il saluto in piedi (Riturei) e quello in ginocchio (Zarei), quest’ultimo ottenibile attraverso la posizione di Seiza. La posizione Seiza è accompagnata dalla pratica del Mokuso (meditazione) che, eseguita nel più totale silenzio, ha come obiettivo il raggiungimento dell’armonia e della concentrazione. Come già accennato, vi sono diversi momenti nella pratica dell’arte marziale e della vita nel Dojo che richiedono diverse forme di saluto, che si posso riassumere come segue.

Shizen Ni Rei: saluto rivolto allo spirito protettore del Dojo, all'altare o agli antenati;

Shomen Ni Rei: saluto verso il lato anteriore del Dojo in direzione degli antenati;

Senpai Ni Rei: saluto all’allievo più anziano (sostituisce il Maestro nella sua assenza);

Senei Ni Rei: saluto al Maestro;

Shihan Ni Rei: saluto al Maestro di livello molto alto
(capo scuola);

Otagai Ni Rei: saluto reciproco tra i praticanti.

 

Nei Dojo di karate è consuetudine accompagnare il saluto con l’espressione OSS (la cui trascrizione in caratteri latini più correttamente dovrebbe essere OSU). Sul suo significato sono state fatte diverse ipotesi e due, fra le altre, meritano una particolare attenzione. La prima vuole che il termine OSS derivi, quale contrazione, dall’espressione giapponese “Ohayo Gozaimasu” che corrisponde in qualche modo al nostro “buongiorno”. La seconda ipotesi vede il significato di OSS derivare, sempre come contrazione, dall’espressione “Oshi Shinobu” che risulta composto dagli stessi ideogrammi della parola OSS. Il primo ideogramma “O” ha il significato di spingere, sollevare, premere; il secondo “SU” quello di resistere, perseverare con risolutezza, soffrire in silenzio. Anche in questo caso, analogamente al saluto, al di là del valore esteriore dato dal significato della parola, vi è un aspetto interiore denso di significato che rimanda al modo d’intendere e di percorrere il “Do”. Anche nelle circostanze apparentemente più semplici nelle quali è abitualmente impiegato, quali salutare il maestro o gli altri praticanti, esprime gratitudine, indica l’avere compreso un insegnamento, esprime approvazione, vi è sempre un aspetto più profondo che vuole sottolineare il rispetto dell’arte marziale che si sta praticando, la voglia di superare se stessi, l’impegno morale a dare sempre il meglio di sé, fino a impiegare il termine OSS, nel suo significato più intrinseco e vero, vale a dire in ogni pensiero, in ogni azione, nella vita di tutti i giorni.

La gerarchia dei gradi di cintura nelle arti del budo è detta kyudan e si suddivide nel sistema degli allievi (kyu o mudansha) e in quello delle cinture nere (dan: yudansha e kodansha). Nel budo si considera il kyu come un grado di scuola o di apprendimento e il dan come un grado di auto perfezionamento. Prima dell’arrivo in Giappone del maestro Funakoshi non esistevano gradi nel karate, fu lui a inserirli nel 1926, ispirato dal fondatore del Jūdō moderno, Jigoro Kano, che a sua volta si richiamò ad un uso proprio degli antichi sistemi marziali giapponesi. Kyu o mudansha Il sistema di gradazione utilizzato nel karate: 6° kyu (ku kyu): cintura bianca 5° kyu (hachi kyu): cintura gialla 4° kyu (shichi kyu): cintura arancione 3° kyu (roku kyu): cintura verde 2° kyu (shi kyu): cintura blu 1° kyu (ichi kyu): cintura marrone Chiunque voglia apprendere le arti marziali comincia nel livello shu (della forma) che comprende l’intero sistema kyu. In esso rientra l’apprendimento basilare delle tecniche (omote) e il raggiungimento del livello psicofisico necessario per toccare i livelli superiori. Si tratta di costruire e rafforzare autodisciplina, volontà, pazienza, comprensione e convivenza con altri, elementi senza i quali non è possibile progredire. Durante questo primo periodo lo sviluppo della tecnica è l’unico criterio di misurazione utilizzabile. Originariamente il mudansha era rappresentato dalla sola cintura bianca, simbolo della non conoscenza, della purezza e della libertà della mente; in seguito fu introdotta la suddivisione tra cintura bianca e cintura marrone, cui si aggiunse poi quella dei colori intermedi.

Il M° Gichin Funakoshi usava spesso dire a chiunque chiedesse se si potesse  raggiungere il 10º Dan: «Quando sarai morto ti verrà conferito il 10º Dan. Il 10° Dan significa conoscenza assoluta, non avere più niente da imparare, finché sei in vita c’è sempre da imparare».


Componenti caratteriali del karate

Parole del M° Carlo Henke

Per parlare di determinazione occorre entrare nella psicologia del karate, evidenziando come questa disciplina sia praticamente unica tra le molte pratiche dei vari atleti nell'ambito dello sport mondiale. Karate è determinazione.
Questa disciplina è stata creata per necessità, non certo per semplice piacere del gesto sportivo fine a se stesso. Potessimo paragonare il karate, sotto questo profilo, ad un’altra disciplina sportiva, potremmo dire che è nato come è nata
la maratona: per necessità guerriera e sopravvivenza. Mani e piedi venivano allenati per uccidere o, nei migliori casi, per recare gravi danni all'avversario, un avversario che si presuppone armato, quindi annientatile preferibilmente al
primo scontro. Prezzo dell’eventuale errore era la propria vita. La determinazione quindi è la regola fondamentale, il credo, nonché la natura stessa di questa disciplina.

Troppe volte l’importanza dell’autodisciplina, uno dei cardini essenziali per ottenere una determinazione ottimale, viene sommariamente trattata, se non del tutto ignorata nell'insegnamento del karate moderno. L’atleta, o aspirante tale, che si accosta per la prima volta al karate, dovrà necessariamente scontrarsi con l’immagine di una disciplina “diversa”. All'inizio si potrà riscontrare sorpresa, poi curiosità, ed infine consapevolezza che l’insegnamento non si limita all'attività fisica, ma anche a quella mentale attraverso il massimo rispetto nei confronti del Maestro, del dojo, degli altri compagni e della propria persona.

In palestra il silenzio è la prima cosa da insegnare all'allievo. Fuori, anche negli spogliatoi, si ride e si scherza; ciò crea cameratismo, gioia di stare insieme, amicizia. In palestra il silenzio favorisce la concentrazione, l’allievo non viene distratto da frasi banali, la voce del Maestro viene percepita più chiaramente, vengono evitate ripetizioni e conseguenti inutili perdite di tempo. Senza parlare l’atleta usufruisce inoltre di tutto il suo tempo per pensare ed agire. Sarà compito del Maestro, nei brevi intervalli di recupero, chiedere ai suoi allievi se hanno domande da porre, o dubbi da risolvere.

L'arte di dirigere lo spirito

Se non si puo’ trovare una soluzione alla propria vita,
essa sbocca in un vicolo cieco.

Come creare la nostra vita ?

Il Karate contribuisce alla creazione e la concentrazione dell’energia.

Concentrandosi qui e ora ed esternando la pura energia del nostro corpo,
si può vedere oltre l’illusione dei sensi e ricaricarsi.

Quando si apre la mano, si può ottenere tutto.

Se si chiude la mano, non si otterrà più nulla.

Nel Karate bisogna penetrare gli elementi, i fenomeni,non passarci a fianco!!

Il segreto del Karate è dunque

imparare a dirigere lo spirito , “RyU gi”.

L'acquazzone

“Un acquazzone impartisce i suoi insegnamenti.

Se la pioggia vi sorprende a metà strada,

e camminate più in fretta per trovare un riparo,

nel passare sotto alle grondaie o nei punti scoperti

vi bagnerete ugualmente. Se invece ammettete sin dall'inizio

la possibilità di bagnarvi, non vi darete pena,

pur bagnandovi lo stesso.

La stessa disposizione d'animo, per analogia, vale in altre occasioni.”

Il grande errore

“Il grande errore consiste nel voler anticipare

il risultato dell’impegno;

non dovreste preoccuparvi di come finirà,

lasciate solo che la natura faccia il suo corso,

ed i vostri strumenti colpiranno al momento giusto.”

L'essenza del Karate

“L'essenza del karate è saper sorridere in ogni occasione.

Se così non è vuol dire che sei rigido, e non ti consiglio

di combattere. Saresti facilmente sconfitto.

Ma se sei capace di sorridere in ogni occasione

che bisogno c'è di combattere? ”

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